Una di queste colline, distante un quarto d’ora dalla brutta città di
Tiberiade, piena di pompose vestigia romane, — Tiberiade è data, ora, al
giudaismo più assoluto — una di queste colline, sorgente sulla spiaggia
occidentale del mare di Genesareth, ha la linea più bella e più attraente di tutte,
un po’ separata in due, alla sua cima, con una viuzza bianca fra le erbe fragranti
e i fiorellini gialli, viola, grigi, che ascende placidamente verso la cima e vi ci
conduce, senza fatica, in altri quindici e venti minuti. Io desiderava assai di salire
sovra uno di quei colli, per guardare, dall’alto, tutto lo spettacolo imponente e
grazioso di Genesareth, per chiudere, in uno sguardo, tutto il paesaggio, ove Gesù
ha portato la sua predicazione e ha annunziato l’avvento del Regno dei Cieli: ma,
forse, non avrei scelto questa collinetta, se, prima di avviarmi, il fedele
dragomanno non mi avesse raggiunta, aspettando, a qualche passo di distanza,
nel più profondo silenzio orientale, e nella più profonda pazienza egualmente
orientale, che io facessi o dicessi qualche cosa.
— Come si chiama quella collina? — gli chiesi.
— Collina di Hattine, madame — rispose.
Tacqui. Guardavo. Esitavo. Forse, più in là, avrei potuto trovare qualche più
elevato punto di vista.
— Ha anche un altro nome — soggiunse Mansur, il preciso dragomanno.
— E quale?
— Hattine è il nome arabo. Il nome cristiano è: il monte delle Beatitudini.
Trasalii e spalancai gli occhi in viso al mio dragomanno. Egli, supponendo
che non comprendessi, mi spiegò meglio:
— Dove Gesù annunziò le nove beatitudini.
Gli voltai le spalle, bruscamente, e mi misi in cammino, per il colle di Hattine.
Tranquillo, muto, egli mi seguiva a distanza e quasi io non udiva il suo passo. La via
era facile: qualche sasso, ogni tanto, franava sotto il piede. Io mi voltava a mirare
il mare di Genesareth, su cui il sole era sorto non ancora ardente, biondo, dai
raggi tenui. Le mie gonne frusciavano contro le erbe, piegavano i fioretti dallo
stelo breve. Arrivai a una prima spianata, ove dei grandi massi di macigno
sporgevano, fra il verde: macigno non più grigio, quasi bianco, quasi simile al
marmo: sembravano dei poggiuoli, in circolo. Li contai: erano dodici. Poi,
anelante di orizzonte, ripresi la molle salita e giunsi all’ultima spianata, fra le due
cime del colle di Hattine. Il mare di Galilea sembrava più largo, più largo, oramai
tutto preso dal sole: Tiberiade biancheggiava, sulla riva, diventata più piccola: e
fra i colli più bassi, la Galilea si allungava, nei suoi campi, nelle sue pianure
apriche, verso tutte le direzioni. Limpidissima la luce, adesso, permetteva di
scorgere molto lontano. Laggiù, laggiù, ecco le rovine di Capharnahum e di
Bethsaida; più in là, quelle di Dalmanutha e di Chorazin, le quattro città dove
Gesù fece tanti miracoli e di cui non giunse ad infiammare la tiepida fede.
All’orizzonte, verso occidente, qualche cosa si distingue, di più oscuro, sulla
campagna: è Magdala, è la piccola città di Maria Maddalena, la città che non è
stata distrutta, poichè il Signore volle così premiare la sua serva. Spettacolo
mirabile! Quaggiù, dove i miei occhi si abbassano, è il posto dove avvenne la
moltiplicazione dei pani e dei pesci: sulla prima spianata, quei dodici massi di
granito sono i dodici poggiuoli ove sedevano gli apostoli, ad ascoltare la parola di
Gesù e che egli promise di trasformare in dodici troni. Mirabile spettacolo e
mirabile posto! Qui, per tre anni, ogni giorno è asceso Gesù.
Ogni giorno! Egli aveva bisogno di altitudini; egli sentiva il bisogno di
riavvicinarsi al Cielo. donde veniva, per trarne la sorgente di ogni sua forza. Dopo il
battesimo, non era egli restato quaranta giorni sull’arido, scabro, tremendo monte
di Gerico, a digiunare, a pregare, tentato dal Maligno? Egli amava i colli, i monti;
ivi la sua parola acquistava un calore e una dolcezza, vivissimi. Su questo colle di
Hattine, egli saliva volentieri, ogni giorno; condotta dai suoi fedeli adoratori, dai
suoi apostoli, una turba di uomini, di donne, di bimbi, lo seguiva, incantata
affascinata, sapendo che, a un certo punto, sarebbero uscite dalla sua bocca
parole sublimi. Per il colle disgradante, la folla si spandeva, sedendo sull’erba,
sedendo sui sassi, formando dei gruppi lieti e dei gruppi pensosi, aspettando che il
Maestro dicesse loro qualche cosa che li confortasse e li esaltasse. Egli, talvolta,
restava a mezza costa, in mezzo ai suoi amici, ai suoi discepoli, ai suoi ferventi,
parlando loro pianamente, con quella soavità delle ore belle e serene, quando
tutta la semplicità nella natura germogliante, fiorente, calmava l’ardore del suo
cuore bruciante. E l’ora trascorreva, piena di una gioia puerile e gioconda, all’aria
aperta, al cospetto del cielo, delle acque, delle campagne, dei villaggi: l’ora
trascorreva e quella turba non pensava nè alle sue case, nè ai suoi negozii, nè alle
sue tristezze, dimentica, estatica. Talvolta, però, venivano le grandi giornate dello
ammaestramento e della profezia: venivano le ore della emozione solenne, per
quella voce che scendeva dall’alto, che si dilungava per le coste del colle di
Hattine, per quella voce che proclamava prossimo il Regno dei Cieli: ore di gioia
suprema che faceva delirare quei semplici, quegli umili, quei poveretti. Sparito il
dolore, sparita la povertà, vinta la morte: ecco la divina promessa. La turba, fra le
prode erbose e fiorite di Hattine, gridava di allegrezza, piangeva di allegrezza, le
madri abbracciavano i figliuoli, sollevandoli verso Gesù, perchè li benedicesse.
Bastava, in quei giorni, la domanda di un discepolo, l’esclamazione di una donna,
la lacrima di un bimbo, perché il Maestro profferisse le verità fulgide che non
saranno mai obbliate. O Hattine, fu qui! In un giorno tiepido di primavera, quando
tutto era fragrante, intorno, e dal lago sei barche erano rientrate cariche di
pescagione, Gesù risalì questo colle e la folla disertò le case, le capanne, le tende
e i villaggi furono vuoti e muti, e le sponde di Genesareth solinghe. Quel giorno,
mentr’egli ascendeva, in alto, la luce era così fulgida, l’aria era leggera e così
carezzevole, i campi avevano tanto molle ondeggiamento di erbe e di piante,
che una ebbrezza naturale scolorava i volti di tutti, dando loro il senso di qualche
grande cosa che si dovesse compiere, imminente. Per qualche tempo, prostrato
Gesù pregò: quando si levò, la folla ebbe il sussulto profondo delle inobliabili
giornate. Di quassù, sotto il purissimo firmamento, innanzi alla distesa azzurra del
mare di Galilea, in questa campagna fertile e benedetta da Dio, a quella folla di
pescatori e di agricoltori, a quella folla di donne e di fanciulli, a quella gente
candida e povera, egli disse le insuperabili parole che, più tardi, per duemila anni,
commuoveranno l’universo col nome di sermone sulla montagna. Di quassù,
furono proclamate le beatitudini dello spirito, che solo esse dischiudono il
paradiso. E la parola che più sarà la consolazione, la liberazione, la esaltazione
delle anime sofferenti, nel mondo, il conforto, la fiducia, la fermezza, la speranza
estrema incrollabile: Beati coloro che piangono. Qui, ha detto questo. Baciamo la
terra.
{ Nel paese di Gesù - Matilde Serao }