giovedì 24 luglio 2014

Il linguaggio dei mistici

Dopo due anni di continue preghiere mie e di altre persone per quanto si è detto, cioè perché il Signore mi conducesse per altra strada e mi mostrasse la verità, continuando egli a parlarmi assai spesso, mi accadde questo: mentre un giorno ero in orazione, per la festa del glorioso san Pietro, vidi o, per meglio dire, sentii, perché né con gli occhi del corpo né con quelli dell’anima vidi nulla, vicino a me Gesù Cristo. Mi sembrava molto vicino e capivo – così almeno mi parve – che era proprio lui a parlarmi; ignorando in modo assoluto che si potessero avere simili visioni, in principio fui presa da grande spavento e non facevo che piangere, anche se poi una sola sua rassicurante parola bastava a lasciarmi tranquilla e lieta come al solito, senza alcun timore. Mi sembrava che Gesù Cristo mi camminasse sempre a fianco e, poiché non era una visione immaginaria, non vedevo in che forma, ma sentivo ben chiaramente che stava sempre al mio lato destro e che era testimone di tutto quanto facevo; e mai, se mi raccoglievo un poco o non fossi molto distratta, potevo ignorare che mi era vicino. Andai subito, molto turbata, a dirlo al mio confessore. Mi chiese in che forma lo vedessi; io gli risposi che non lo vedevo. Mi chiese allora come potessi sapere che era Cristo. Gli dissi che non sapevo come, ma che mi era impossibile non accorgermi che mi era vicino, che lo vedevo e lo sentivo chiaramente: il raccoglimento dell’anima era molto maggiore e più continuo che nell’orazione di quiete, gli effetti erano ben diversi dai soliti e la cosa era molto evidente. Non facevo che portare paragoni per farmi capire, ma certamente, per questo genere di visioni, a mio parere, non ce n’è alcuno che vada bene. Pertanto, essendo delle più sublimi (come mi disse poi un santo uomo, di spirito assai elevato, chiamato fra Pietro d’Alcántara, di cui in seguito parlerò più a lungo e anche altri grandi teologi), poiché fra tutte, è quella ove meno si può intromettere il demonio, non c’è modo per noi, qui, che sappiamo poco, di spiegarla, ma i dotti la sapranno spiegare meglio. Se dico, infatti, di non vederlo né con gli occhi del corpo né con quelli dell’anima, perché non è visione immaginaria, come posso capire e affermare che sta presso di me più chiaramente che se lo vedessi? Dire che è come se una persona sta al buio e non può vederne un’altra presso di sé, o che è cieca, non è esatto. Vi è qualche somiglianza, ma non molta, perché questa tale persona percepisce con i sensi e ode parlare o sente muovere l’altra, se la tocca. Qui non avviene nulla di tutto questo e neppure si è al buio, perché Dio si manifesta all’anima con una luce più chiara del sole; non dico che si vede il sole né alcun chiarore, ma una luce che, senza mostrarsi, illumina l’intelletto, affinché l’anima goda di un bene così grande e porta con sé molti altri vantaggi.

Non è come la presenza di Dio che si avverte molto spesso specialmente da chi attende all’orazione di unione o di quiete, allorché sembra, disponendosi a cominciare tale orazione, di trovare subito con chi parlare e di capire d’essere ascoltati per gli effetti spirituali e i sentimenti che proviamo di ardente amore, di fede e di altre risoluzioni piene di tenerezza. Questo è un grande dono di Dio, e lo stimi molto chi l’abbia ricevuto, perché si tratta di un’orazione assai elevata, ma non di una visione. In essa, infatti, si comprende che Dio è lì per gli effetti che – come dico – produce nell’anima, mediante i quali Sua Maestà vuol farsi sentire. Ma, qui si vede chiaramente che è presente Gesù Cristo, figlio della Vergine. Là sono evidenti soltanto alcuni effetti della divinità; qui, insieme con essi, si vede anche che ci accompagna e vuol farci grazie la sacratissima umanità di Cristo.

Mi domandò, dunque, il confessore: «Chi le ha detto che era Gesù Cristo?». «Egli stesso me l’ha detto, molte volte», risposi io, ma prima che me lo dicesse, avevo ben capito che era lui, anzi, me l’aveva detto prima ancora, quando io non lo vedevo. Se una persona che non avessi mai visto, ma di cui solo avessi avuto notizia, venisse a parlarmi mentre sono cieca o al buio, e mi dicesse chi è, io potrei crederlo, ma non potrei affermare con certezza che si tratti di quella persona, come se l’avessi vista, mentre qui sì, perché il Signore, pur senza che lo si veda, ci si imprime nell’anima con una conoscenza così chiara che sembra impossibile dubitarne. Egli, infatti, vuole restare scolpito nell’intelletto in modo che se ne abbia la certezza, come e più che se si vedesse con gli occhi, perché in questo caso, a volte, ci rimane il sospetto di aver visto con la fantasia, mentre qua, anche se lì per lì possa sorgere tale sospetto, la certezza è così soverchiante che il dubbio non ha forza.

Qui Dio istruisce l’anima anche in altro modo e le parla senza parlare, come ho detto. È un linguaggio così celestiale, che quaggiù non si può spiegare, per molto che vogliamo dire, se il Signore non ce lo insegna mediante l’esperienza. Egli pone nella parte più intima dell’anima ciò che vuole che essa intenda, presentandoglielo senza immagini né forme di parole, ma nel modo della visione di cui ho detto. Si noti bene questo modo con cui il Signore fa capire all’anima, insieme con ciò che egli vuole, grandi verità e misteri, perché molte volte è proprio così che io intendo, quando il Signore mi spiega qualche visione avuta, e mi sembra che qui il demonio possa intromettersi meno, per le ragioni che seguono; se esse non sono buone, vuol dire che m’inganno.

Questa specie di visione e di linguaggio è cosa tanto spirituale che nelle potenze e nei sensi non c’è nessun movimento, a mio parere, da cui il demonio possa spiare nulla. questo avviene, però, solo qualche volta e per breve tempo, mentre altre volte mi sembra che né le potenze siano sospese né i sensi sopiti, ma perfettamente in sé, il che nella contemplazione non avviene spesso, anzi assai di rado; ma quelle volte che avviene, noi non operiamo né facciamo nulla: sembra che tutto sia opera del Signore. È come se nello stomaco si trovasse un cibo che non abbiamo mangiato né sappiamo noi stessi come vi sia entrato, eppure siamo certi che c’è; ma mentre, per quanto riguarda il cibo, non si sa che cibo sia né chi ve l’abbia posto, qui invece lo sappiamo. Solo si ignora in che modo vi sia stato posto, perché non si vede né s’intende ciò che l’anima non si era mai indotta a desiderare, non sapendo neppure che una tale grazia fosse possibile.

Nelle parole che abbiamo detto prima, Dio fa in modo che l’intelletto stia attento, anche contro sua voglia, a intendere ciò che egli dice, perché in quello stato sembra che l’anima abbia nuove orecchie per udire e che Dio la costringa ad ascoltare e a non distrarsi. È come se a una persona di buon udito non si permettesse di tapparsi le orecchie e le si parlasse da vicino e a gran voce: anche se non volesse, deve udire e, infine, qualcosa fa, stando attenta a capire ciò che le viene detto. Qui l’anima non fa nulla, perché le viene tolto anche il poco che faceva in passato, ch’era solo l’ascoltare. Trova tutto bell’e pronto, come già cucinato e mangiato, né ha da fare altro che goderne, come uno che, senza aver appreso e nemmeno aver studiato mai nulla, né essersi mai affaticato per imparare a leggere, si scopra ormai dotto in ogni scienza, ignorando in che modo né da chi gli sia venuta, poiché non aveva fatto alcuno sforzo nemmeno per imparare l’abbiccì.

Quest’ultimo paragone mi sembra che spieghi qualcosa di tal dono celestiale, perché l’anima si ritrova in un attimo sapiente e vede con tanta chiarezza il mistero della santissima Trinità e altri misteri molto elevati, che non c’è teologo con il quale non ardirebbe discutere la verità di queste altissime rivelazioni. La riempie di meraviglia il fatto che basti una sola di queste grazie per mutare totalmente un’anima e non farle amare più nulla, se non colui il quale, senza alcuna fatica, vede che la rende capace di accogliere così grandi beni, le rivela i suoi segreti e la tratta con tali ineffabili prove d’amicizia e d’amore. Alcune di queste grazie generano perfino sospetto, per essere causa di così grande meraviglia e per essere fatte a chi le ha così poco meritate, che senza una fede assai viva non si potrebbe credere. Pertanto, mi propongo di parlare di poche fra quelle che il Signore ha concesso a me – se non mi verrà ordinato altrimenti – limitandomi ad alcune visioni che possono essere di vantaggio in qualche cosa, o perché non si spaventi chi ne sarà favorito dal Signore, sembrandogli cosa impossibile, come facevo io, o per indicargli il modo e il cammino attraverso cui mi ha condotto il Signore, che è appunto ciò che mi hanno comandato di scrivere.

Tornando, dunque, a questa maniera d’intendere, a me sembra che il Signore voglia in tutti i modi che l’anima abbia una qualche idea di ciò che avviene in cielo, e mi sembra anche che allo stesso modo in cui lassù si ha la facoltà d’intendere senza bisogno di parole (cosa che io non ho mai saputo con certezza fino a quando il Signore per sua bontà volle che ne avessi conoscenza e me la mostrò in un rapimento), così avviene qui, dove Dio e l’anima si comprendono, non appena Sua Maestà lo vuole, senza bisogno di alcun artifizio che serva alla manifestazione dell’amore vicendevole fra questi due amici. Come quaggiù, se due persone si amano molto e sono d’intelligenza sveglia, anche senza alcun segno sembra che si comprendano, solo col guardarsi, così dev’essere in tale circostanza in cui, senza che noi possiamo capire come, questi due amanti si guardano fissamente; al modo stesso in cui lo sposo parla alla sposa nel Cantico dei Cantici, a quanto mi sembra d’aver udito, è ciò che avviene qui.

{Da "Libro della mia vita" di Santa Teresa d'Avila}