domenica 27 ottobre 2013

Nella chiesa del Santo Sepolcro

Nell’anticamera dell’Angelo, che precede la cameretta funebre del 
Signore, fra le penombre, ove appena appena biancheggia la pietra su cui era 
appoggiato il divino e luminoso messaggero, sostano, in silenzio, tutti coloro che 
vengono ad adorare il sepolcro di Gesù. Essi aspettano il loro momento per 
penetrare sotto la bassa porticina di roccia, piegati in due, e per giungere sino 
alla tomba sacra. In questa celletta poco si distinguono i volti e le persone. 
Qualcuno s’inchina a baciare quella pietra dell’Angelo e recitarvi su qualche 
orazione: altri si addossano alle pareti, in attesa; qualche fruscio sottile di rosario 
smosso, qualche profondo sospiro rompe il silenzio. A mano a mano, qualche 
ombra d’uomo, di donna, esce dalla stanzetta del Sepolcro, dove ha finito la sua 
adorazione: esce curva, a ritroso, sparisce via, mentre coloro che aspettavano, 
ombre incerte, entrano curvate, piegate quasi sino a terra, nella seconda cella, 
mentre ancora, dalla chiesa, altre ombre indecise, fluttuanti, ansiose e pur 
stanche, penetrano nella stanzetta dell’Angelo, per attendere il loro turno: ombre 
certamente misere nel cuore e nella vita, che desiderano supremamente 
inginocchiarsi innanzi al sasso, dove fu composto il martire sublime. Questa folla 
sempre fluente di fantasmi è muta: è curva: non guarda intorno: non riconosce e 
non è riconosciuta, vinta dal raccoglimento e dalla preghiera, assorta nelle sue 
cure e nelle sue tristezze, ignara del suo vicino, unita veramente, col desiderio e 
con l’evocazione, al consolatore di tutti gli afflitti. Ogni linea, ogni colore, ogni 
carattere sparisce nella oscurità, in quella prima stanza, dove già il pensiero del 
visitatore si immerge nelle sue profondità incalcolabili, dove già l’anima sente la 
trepidazione di un appressamento supremo: e ognuno è chiuso in sé, raccolto 
quasi fisicamente, come sottratto alla vita esterna, chiuso nella sua già vacillante 
vita interiore, che si disegna sempre più confusa nello spirito, chiuso in quel 
tremore intorno che cresce, intuendo il contatto imminente con quella tomba. 
E, invece, una piena luce scende dal tetto perforato nella stanzetta, ove fu 
deposto, avvolto nel velo mortuario, il corpo del Signore, che la misera madre e le 
pie donne avean asperso con le loro lacrime e deterso coi loro capelli: tutto vi si 
vede bene, precisamente. Così, i visitatori che arrivano, continuamente, dal basso 
androncino e che vengono a prostrarsi innanzi a quel marmo, mostrano la loro età 
e la loro condizione, le loro fogge e i loro costumi, i loro atti di pietà e di dolore, 
quasi quasi fanno udire le loro preghiere. 


Pregare, pregare? 
Colui che entra curvato, si rialza come abbarbagliato dalla soverchia luce e 
brancola, quasi cercando la tomba: e come il suo corpo crolla innanzi a quella 
pietra, così pare che crolli l’anima, in un oblio di ogni formula, in un abbandono 
spirituale, senza parole e senza idee. La preghiera? Il pellegrino, venuto di lontano, 

che ha superato stenti e difficoltà per giungere sino a Lui, che ha subito privazioni 
e tristezze, che ha sognato, così ostinatamente e così ardentemente, questo 
minuto di avvicinamento fra sé e il suo Signore, non ha forza di pregare. Prosciolte 
le membra, smarrita l’anima, non può esso riunire la parola al pensiero, non può 
dominare il suo pensiero; la fronte poggia sul sacro marmo, immobile; la bocca 
schiusa, immobile, tocca così il sacro marmo, quasi non avesse neppure la forza di 
baciarlo: non un atto: non un gesto: l’abbattimento più profondo, come se quella 
emozione avesse infranto tutto le corde dell’essere. 
Qualcuno piange, sì. Appena caduto in ginocchio, come se il cuore si fosse 
spezzato, scoppia in disperati, alti, inconsolabili singhiozzi, battendo col capo e col 
petto contro quella pietra, irrorando di caldissime lacrime quel freddo sasso, 
abbracciandolo avidamente, stringendovisi come all’estrema salvazione umana, 
cercando di costringerlo a sè, come per immedesimarvisi, come per morirvi di 
dolore, di pentimento, di amore. Ma non una voce, salvo quei singhiozzi mai più 
uditi, che non si udranno mai più: ma non una domanda, non una invocazione, 
non una promessa, non un giuramento, come dinanzi a qualunque altare: non un 
mormorio sommesso di preci, di quelle che cullano, monotonamente, le lunghe 
malinconie dei supplicanti: solo questo clamore di pianto convulso, irrefrenabile, 
solo questo accasciamento, che somiglia alla morte. 
Ed è il pellegrino latino, venga dalla Francia, dall’Italia, dalla Spagna, venga 
dalle lontane repubbliche del Sud America, che ha lo scoppio più violento di un 
misterioso dolore e di una irrefrenabile tenerezza, piena di lacrime: è quello che 
tocca il Santo Sepolcro con le mani, con la faccia, col petto, invano cercando di 
porre freno alle sue lacrime; è quello che vorrebbe dissolversi, vorrebbe dileguarsi 
in un mare di pianto, dove trovare la purificazione e la morte. 
Voi riconoscete il pellegrino russo il più povero, il più umile, il più pio, il più 
taciturno e il più esaltato di tutti, alle sue croci profonde e larghe nel gesto, al suo 
grave corpo piombato a terra, nell’adorazione, e coverto da un gabbano 
sdrucito, da un paio di brache scolorite e grame, alla sua testa abbassata e 
singhiozzante su cui si abbassano, come onda i suoi capelli biondi e ricciuti, ai suoi 
occhi velati di silenziose lagrime, alle sue mani trepide, che stringono il vecchio 
berretto di pelliccia, al pallore del suo volto, dove appare un ardore religioso 
insaziato. Voi riconoscete al suo volto oscuro, tagliato da rughe forti e dure, al suo 
abito talare consunto alla sua espressione di fatica, alla sua prostrazione mistica, 
lunga e muta, il povero prete maltese, che è venuto dalla sua isola, quasi 
mendicando, in terza classe, sui battelli, dicendo messa in tutti i paesi della costa, 
della terraferma. Voi vedete gli occhi stralunati nella felicità della povera donna 
polacca che è in cammino da tre mesi, che percorre a piedi tutta la Siria, e che 
vive ancora per la pietà degli ospizi, dei ricoveri, dei passanti, baciando la mano a 
tutti, non sapendo nessuna lingua oltre il polacco eppure vivendo, non morendo, 
malata, fiaccata, ma arsa di un fuoco inestinguibile e che sviene di gioia, 
toccando il Santo Sepolcro. Voi vedete le mani aduste del misero contadino 
greco, che hanno tanto lavorato la gleba, da prendere il colore della terra e 
hanno toccato tanto gli alberi, da essere nodose come un tronco, voi vedete 
queste povere mani tremare, tremare, toccando quella bianca pietra, sognata 
nei mistici sogni e raggiunta a stento, portando la bisaccia e il bordone, proprio 

come gli antichi romei. E tutti questi antichi credenti, così miseri nell’aspetto, ma 
così ricchi nell’anima, tutti questi cristiani di ogni nazione, che partiti di lontano, 
con una fede così candida, e così alta, tutti quanti portano, alla loro adorazione, il 
carattere diverso della loro patria, della loro razza, del loro temperamento, della 
loro anima, ma tutti hanno, nella loro singolare, invincibile, irrefrenabile emozione, 
toccando il Sepolcro come un mancamento di tutto l’essere, come un deliquio 
spirituale e fisico, pensando, sentendo di poter morire in pace, dopo aver adorato 
quella tomba: il loro desiderio compiuto e la loro fatica suprema, tutto ciò che 
hanno patito e tutto ciò che hanno sperato e visto accadere, in quel momento, li 
vince come se veramente dovessero morire. Qualcuno, innanzi al Santo Sepolcro, 
è morto di commozione estrema e di estrema lassezza. (...)
La notte è salita, quasi, dal basso in alto, mettendo la oscurità, prima intorno
alle forti colonne della rotonda, poi sulle due gallerie superiori ed ha smorzato
l’azzurro chiaro del lucernario: dietro i pilastri, intorno alle cappelle, per tutti gli
avvolgimenti strani di quella singolarissima architettura, l’oscurità è diventata
tenebra. Qua o là, fiochissimi punti luminosi. Lassù, dietro l’abside, si erge, alta,
bruna, la seconda chiesa, quella del Calvario, legata a quella del Sepolcro da
due erte scalinate di marmo: avvolta di nero, nella notte, solo qualche lampada
appena scintilla, sul posto del Golgotha, dove fu conficcata, in terra, la Croce.
Nella cappella di San Salvatore, in quella di Santa Maria Maddalena, dei nostri
francescani, ancora qualche lumicino, tra l’ombra profonda: le cappelle
sotterranee, tagliate nella roccia, dove sono le tombe di Giuseppe d’Arimatea o
della sua famiglia, dove è stata trovata la Croce, coi loro piccolissimi lumi

profondi, hanno l’aria di bocche nere, aperte nella terra, pronte a ingoiare. E
l’anima travagliata e contrita, che domandò questo lungo e terribile colloquio
notturno col suo Signore, che volle parlare al suo Dio come una sol volta si parla,
nella notte, è presa da una emozione estrema. Tutte le sue facoltà fisiche sono
paralizzate e annullate da questa commozione: tutti i suoi sensi sono aboliti o in
preda ad allucinazioni bizzarre. Ritto, presso la porta della sacra edicola, non
osando ancora entrarvi, non osando fare un passo nella chiesa, egli lascia il suo
essere sommergersi.
Innanzi agli occhi spalancati sull’ombra, le proporzioni del tempio
s’ingrandiscono, si fanno immense, si fanno vaghe, sterminate, senza confini:
talvolta, come un soffio fa vacillare la luce delle lampade che ardono,
sottilmente, qua e là, e sembra che uno spirito sia passato sovr’esse e le abbia
fatte tremare. Non si odono, forse, dei passi lievi che sfiorano il suolo? Chi sospira,
profondamente, nella notte? Vi è, forse, qualcuno laggiù, dove qualche cosa di
bianco pare che trascorra? Tutto, tutto intorno nella chiesa deserta o forse non
deserta, nel silenzio interrotto da susurri forse fantastici, è un assurgere d’ombre e
di suoni misteriosi: l’occhio nulla vede, ma immagina dolenti e irosi fantasmi usciti
dalle loro fosse lontane e venienti ad aggrupparsi intorno alla tomba delle tombe:
l’orecchio nulla ode, ma la fantasia ode mormorii bassi, dove par quasi di
riconoscere le voci piene di tristezza e piene di rampogna, di coloro che
amammo, e che partirono prima di noi: e nelle brune onde notturne, quasi
smisurate, in cui è immerso il tempio, par che viva e si agiti un mondo di figure
svanenti, i volti lividi di morenti, di mani scarne e febbrili che si levano per
benedire, per dare l’ultimo addio, mondo di tristezza e di paura, su cui si leva,
pianamente, qualche parola sommessa e amara, qualche singulto soffocato,
qualche grido sordo di chi muore, di chi muore...
L’anima, folle di dolore e di sgomento, in un moto disperato, penetra,
vacillando, nella cameretta funebre e si stringe alla tomba, come un figlio al seno
materno, come a una pietra che sia la salvezza suprema, come a una vivente
pietra di soccorso e di amore. E le labbra convulse, la cui febbre si placa sul
marmo gelido, nella notte profonda, ripetono ancora, al Signore, la grande, la
incessante domanda, quella che, nelle ore più tetre e nelle ore più esaltate,
sgorga dalla bocca di chi soffre e di chi crede, la domanda del figlio a suo padre,
la domanda dell’Anima al Cielo, ma fatta, in quel momento, più alta, più solenne,
più decisiva. «Poichè è la notte, poichè siamo soli, o Signore, poiché tu vedi quello
che io penso, quello che io sento, Signore, poichè io venni qui, alla tua tomba, e
volli restare una notte, in tua presenza, dimmi, o Signore, quale è la Verità e la Via!


L’anima aspetta. E come nel chiaror vivo delle quarantanove lampade che
ardono perennemente sul Santo Sepolcro, si quetano i terrori vani dello spirito,
pare che una novella serenità plachi l’agitata coscienza. In verità, quanto vi era
dentro di falso, di gretto, di meschino, di frivolo, è crollato come un grande muro
che impediva di bere l’aria viva, che impediva di vedere il cielo azzurro: sono
scomparse le superbe e inani vicende dell’orgoglio: l’ardore misero e breve degli
egoistici interessi, i desiderii fallaci e ingannevoli, le voglie cupide o basse, tutte le

menzogne tutte le ipocrisie, tutti i tranelli dell’istinto, sono spariti, qui, questa notte,
ora. È sciolto il duro nodo, che teneva l’Anima avvinta ai trionfi della vanità e ai
piaceri dei sensi: l’immondo legame dello Spirito con tutte le gioie esteriori, con
tutte le parvenze della bugiarda felicità, ecco, è troncato. Libera, l’Anima. Così
volle, che venissero a sè, le anime, Gesù Cristo che fu sepolto qui: così le volle,
staccate da quanto vi ha d’impuro e di mortifero nella vita: e così le ebbe, intorno
a sè: e così le avrà, nel nome della sua fede: e così saranno libere, sempre, per
divino potere, toccando la pietra della sua tomba. Potessero tutti gli uomini altieri
e folli della loro alterigia, tutte le donne belle e giovani e folli della loro bellezza e
della loro gioventù, potessero venire, qui, per vivere una notte in questa chiesa,
dove è il Vostro sepolcro, Signore, presso questo letto funerario, dove Voi avete
dormito il sonno della morte: tutta la loro superbia e tutta la loro vanità
cadrebbero, nella lunga ora notturna, soli con Voi che portaste un’anima divina e
che foste il più umile fra gli uomini: è in questa solitudine profonda, presso la lapide
che ha chiuso il Vostro corpo martirizzato, che dovrebbero piegare la testa tutti gli
egoisti, tutti gli spensierati, tutti gli indifferenti, coloro che vivono solo pel proprio
benessere, coloro che vivono senza chiedersi la ragione della vita, coloro che
disperdono, vanamente, le più nobili forze spirituali, qui, innanzi a Voi che amaste il
più puro ideale, che sapeste amarlo, che sapreste farlo amare, che voleste morire
perché questo ideale vivesse, nei secoli dei secoli!
L’Anima pensa, ascolta, ricorda. Tante cose Egli disse, nella sua vita di
profonde e indimenticabili parole! Pure, una è più vibrante, più misteriosa e più
larga: Tu ti preoccupi di molte cose, o Marta, e una sola è necessaria. Una sola?
Non è, dunque, necessario che i nostri desiderii si compiano, che i nostri sogni si
realizzino, che i nostri amori sian corrisposti, che i nostri odii sieno efficaci, non è
necessario? No, non è necessario. Una cosa sola è necessaria: Colui che per due
giorni giacque, in questa roccia, aveva detto questo. La saldezza degli affetti
familiari, la venerazione dei figli, la gratitudine degli amici, la fede e la lealtà di
tutti, non sono, dunque, cose necessarie? Non bisogna, dunque, piangere o
gemere, se tutte le nostre fatiche non ebbero compenso e se tutti i nostri
sentimenti furono scherniti? Non bisogna, dunque, dolersi se nulla condusse alla
sua mèta il nostro intelletto e il nostro cuore? Se noi restammo per via, se
giacemmo, inerti, senza più sangue nelle vene, senza più volontà nell’anima,
senza più desiderio, senza più speranza, dobbiamo noi consolarci, solo in noi? Solo
in noi? Sempre in noi? Una sola cosa è necessaria: la vita dello spirito.
L’Anima vede e sa. Egli visse la grande vita dello spirito e volle che tutti, per
lui, la vivessero. Quanti erano dolenti, oppressi, infermi, infelici, quanti deboli per il
sesso, per l’età, per la condizione, donne, vecchi, bimbi, malati, poveri,
conobbero, da lui tutte le consolazioni interiori che sollevano, che purificano:
quanti subivano le contingenze odiose di tutte le sventure, gli abbattimenti di tutte
le miserie, le tristezze di tutti gli abbandoni, seppero che vi è, nella propria
coscienza e nella sublime idea dell’ultimo compenso la fonte purissima di ogni
conforto. La vita dello spirito che assunse in lui una forma divina, nell’oblio di tutti i
calcoli umani, nel perdono di tutte le offese, nella pietà verso tutti i peccatori
umiliati, contriti, nell’amore per tutti i sofferenti, egli la dette in dono a tutti coloro
che credettero in lui e che in lui crederanno: dono divino, fatto solo per guarire le 39

anime, fatto solo per compire i più meravigliosi miracoli interiori. La vita dello spirito
che può essere semplice e umile ma sempre consolatrice che può essere grande,
potente e che può condurre l’uomo sulle cime dell’ideale, che forma dei martiri,
che forma degli eroi: che è il sorriso della giovinezza, la forza della virilità, la
benedizione della vecchiaia: la vita di Colui che nacque in Betlemme e che morì
in Gerusalemme. Dice l’anima, quieta, serena, oramai pacificata: Tu mi hai
parlato, o Signore in questa notte terribile e dolce: tu hai risposto al tuo servo. Io
conosco la Verità e la Via.

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Dal vano rotondo della cupola, scende, nel tempio, la luce dell’alba e circonda
la sacra edicola. Poi, il sole vi penetra e l’avvolge in un’aureola trionfale.
{da "Nel paese di Gesù" - Matilde Serao}