domenica 27 ottobre 2013

Il Getsemani

Di fronte al lato orientale di Gerusalemme lontano solamente trecento passi 
dalla porta di Santo Stefano, separato dal mistico e silente monte Sion dalla tetra 
e deserta valle di Josaphat, nel limpido orizzonte ove sorge il sole, si erge il Monte 
degli Ulivi, cui basta il nome per far piegare sotto il flutto amaro e profondo dei 
ricordi, ogni anima che abbia intesa la poesia della Passione. Esso non è molto 
alto; da qualunque terrazza di Gerusalemme si scopre, dominante tutto intorno: 
non è molto alto, ma la gran luce, onde è circondato dalle prime ore dell’alba, 
quel gran chiarore cristallino e biondo che ne avvolge la cima, gli dà come 
un’elevazione nell’aria. Persino nelle ore notturne — quando la terrestre Sionne 
dalle casette bianche si addormenta all’ombra dei suoi monasteri cristiani, della 
sua maestosa moschea e del suo lembo di muro del Tempio che, pel popolo 
ebreo, è il supremo ricordo — anche nell’ora tarda, quando non un rumore sorge 
dalle viuzze di Solima, dai suoi angiporti deserti, dai suoi bazars muti, allora, da 
qualche terrazza, donde il pellegrino pensoso contempla il sonno di 
Gerusalemme, ancora sotto i raggi vividi delle stelle, il Monte degli Ulivi troneggia 
preciso e nitido nelle tenebre, quasi che le pie stelle versassero sul monte che Egli 
amò, tanto maggiore scintillio di luce. Il Monte degli Ulivi arrotonda la sua curva 
dinanzi ai colli, ove è fabbricata la città di tutte le religioni, e pare che in ogni sua 
linea sia restata come una espressione indefinita e pur forte, per cui gli occhi vi si 
fissano, intensamente e cercano chiudere nel loro ambito tutta la figura della 
montagna di Gesù, ove egli tanto visse, tanto pregò e da cui, nella terribile notte, 
si partì per morire: giacchè è bene di lassù, da questo Monte degli Ulivi, ove egli fu 
baciato da Giuda di Kerioth e preso dai soldati, è di lassù, dove egli disse ai 
discepoli che tre volte, invano, egli aveva cercato di svegliare: Non importa, ora, 
che vegliate: ora è tutto finito, che comincia la via dolorosa, e non già dal Pretorio 
di Ponzio Pilato, ove il Nazareno subì l’ingiusta condanna. Ah! nella notte, con 
quale avidità gli occhi di chi pensa, di chi crede, di chi sogna, si fissano su questo 
Monte degli Ulivi, quasi volendo vedere il triste corteo con le fiaccole e con le 
spade sguainate, che discende verso il torrente del Cedron, trasportando, legato 
come un malfattore, il Figliuolo di Maria, l’Innocente! 


La via per ascendere al Monte degli Ulivi è molto scoscesa: non vi 
conducono che due piccoli sentieri, tutti pietrosi e ripidi. I viaggiatori che amano i 
loro comodi, vi salgono sopra un cavallo o sovra un asinello; anzi quasi sempre 
sugli asinelli, che hanno il piede tranquillo e sicuro, per queste vie di montagna, in 
Palestina, dove i sassi, le rocce, la terra smossa rendono così malfido il passo. Ma 
chi vuole vedere, sul serio, il Monte degli Ulivi, vi sale a piedi, lentamente: 
senz’ansia di turista frettoloso, con quella quiete silenziosa di chi vuol pensare e 
sentire, dopo di aver veduto: sale per quella piccola via scabra, che, nell’ultimo 

periodo della sua vita, Gesù percorse ogni giorno e dove par quasi, 
inginocchiandosi a terra, di vedere le impronte dei suoi passi. D’altronde, come 
non fare a passo a passo il Monte degli Ulivi, quando, dappertutto, vi è una 
memoria, un ricordo, così vivaci e così vibranti nella fantasia? Ecco il giardino di 
Ghetsemane, coi suoi otto ulivi sacri all’amore e all’adorazione, gli ulivi di allora, 
poiché l’ulivo rinasce sulla sua radice e tutte le tradizioni, l’ebrea, la musulmana, la 
cristiana, conformandosi rigorosamente, stabiliscono che qui, sotto questi ulivi, 
vicino a questi tronchi così annosi, Egli è venuto a pregare, ogni giorno, è venuto 
ad invocare il suo Padre, che era la sua forza e il suo coraggio: il giardino di 
Ghetsemane che, esso solo, merita non una, ma due, tre visite, ma due o tre 
dimore, sotto questi sacri ulivi, la cui verdura pallido-argentea vide tante volte i 
grandi occhi, azzurri come il lino, del biondo Nazzareno, levarsi al cielo, 
impetrando la virtù per resistere al disgusto degli uomini e delle cose. Ma il Monte 
degli Ulivi non ha solo Ghetsemane, il teatro della più grande tragedia spirituale, 
che abbia mai conturbato e desolato un’anima divina: esso ha per sè metà della 
storia estrema di Gesù e di Maria. Qui, a mezza costa, alcune pietre dirute 
indicano il posto di un’antica cappella, intitolata Dominus flevit, il Signore ha 
pianto: è in questo posto che Gesù, guardando Gerusalemme, in un luminoso 
pomeriggio di primavera, quando essa era ancora tutto splendore e tutta forza, 
ma indurita nella superbia e nella impenitenza, che Gesù pianse sovra Sionne e 
sulla sua rovina: è da questo posto, quarant’anni dopo la straziante morte del 
Giusto, che l’imperatore Tito, accampato sul monte degli Ulivi, con la sua nona 
legione, slanciava contro Gerusalemme l’onda violenta e distruggitrice dei suoi 
soldati romani e Sionne cadeva, e il suo popolo era massacrato, i suoi templi 
atterrati, e centinaia di migliaia di ebrei cominciavano a scontare la maledizione 
da essi medesimi invocata. Accanto al giardino di Ghetsemane, poco lontano, 
giunta alla grave età di settantatre anni, Maria di Nazareth incontrò, ancora una 
volta, l’arcangelo Gabriele, che offrendole una palma, dolcemente, le disse il 
corso della sua vita esser finito e che ella sarebbe ascesa alla gloria del cielo: ella 
chinò il capo, obbediente, come la prima volta. Una bianca roccia segna il punto 
dove Maria, assunta al cielo, lasciò cadere la sua cintura, la quale fu raccolta e 
serbata dall’apostolo Tommaso: mentre a venti passi, in una chiesa dove si 
discende per una larga e profonda scala, vi è la tomba di Nostra Signora. 
Continuamente, in questa chiesa che raccoglie le tombe di San Gioacchino e di 
Sant’Anna, nel rito greco, vi sono messe, preci, orazioni e litanie: e sulla roccia ove 
non fu trovato, scoprendola, se non il lenzuolo funebre ove era involto il corpo 
della madre di Gesù, sempre si prega. Sul lato destro del Monte degli Ulivi, sempre 
non lontano da Ghetsemane, è la grotta dell’agonia, dove colui che doveva 
perire, perché la coscienza dell’umanità trovasse la legge della salvazione e della 
vita, sudò sangue e bagnò la terra col suo mortale sudore: e ad ogni aurora, un 
frate francescano viene a celebrare la messa in questa grotta, poichè essa, 
felicemente, appartiene alla religione latina. Una pietra bianca, sul fianco del 
monte, segna il posto del sonno degli Apostoli: e in fondo a una viottola, una 
colonna segna il punto dove Gesù fu tradito da Giuda. Ah, sì, bisogna visitarlo, 
passo, passo, il Monte degli Ulivi, e non una volta sola, poiché troppo è l’urto delle 
impressioni; bisogna salire sin quasi alla cima, dove è la chiesa carmelitana del  

Pater! Qui, per la seconda volta, poiché la prima volta lo aveva fatto sul Monte 
delle Beatitudini, in Galilea, in quel meraviglioso sermone sulla montagna che ogni 
cristiano dovrebbe conoscere a memoria e che ogni filosofo è costretto ad 
ammirare nella sua grandezza, qui, Gesù, richiesto, insegnò ai suoi discepoli come 
si pregava, congiungendo le mani e pronunciando la sublime preghiera che 
consola, che glorifica, che affratella, che domanda, che perdona, che invoca 
perdono: Padre nostro! Sino a pochi anni or sono, questo luogo era nudo: ma la 
munificiente pietà di Adelaide de Bossi, duchessa de Bouillon, una francese nata 
da un grande italiano, Carlo de Bossi, fondò, qui, un convento di Carmelitane e 
una chiesa del Pater. Silenziosa e bianca chiesa, il cui cortile è pieno dei più 
graziosi e più freschi fiori, il cui chiostro, tutto di marmi preziosi, contiene il Pater 
noster scritto in trentasei lingue, sulle sue pareti, e dove, a mano diritta, in una 
candida cella mortuaria, giace la fondatrice, duchessa de Bouillon, e vicino a lei, 
in un’urna è il cuore di suo padre. Dietro le pareti del monastero, le carmelitane, 
quelle che seguono la più stretta regola dell’ardente Teresa di Avila, pregano, 
senza che mai una di esse apparisca: e questa chiesa del Pater, tutta bianca e 
muta, tutta fiorita, induce alla contemplazione e a quel distacco dello spirito, nelle 
visioni vaghe e lontane.... 
Ed è, infine, dal Monte degli Ulivi che Gesù salì al cielo, compiendo le 
profezie delle Scritture, compiendo il suo divino destino. Conviene ascendere in 
alto, in alto, proprio sulla cima del Monte degli Ulivi, per trovare il sacro passo, 
dove il monte d’oriente preconizzato dai profeti. vide la gloria del suo Signore, 
come ne aveva veduto l’onta e la disperazione. Ahimè, il posto dell’Ascensione, è 
occupato da una fredda e deserta moschea di Maometto! Pure, con quella 
tolleranza religiosa di cui dànno continuamente esempio i mussulmani, il derviche 
che è a custodia di quel gelido tempio turco, senza ornamenti e senza poesia, 
apre volentieri la porta ai cristiani. Anche nel giorno dell’Ascensione, i nostri 
francescani portano lassù altari e paramenti e celebrano le messe e, con una 
mancia, che è il segreto di tutto, in Turchia, qualunque sacerdote, con un altare 
portatile, può dire la messa nella moschea della Ascensione, quando vuole. 
Intanto il cristiano, quassù, sulla porta della moschea, cerca obliare il ridicolo e 
ignobile imbroglio, e cerca indovinare che fu quella scena. Pieno di luce, il Monte 
degli Ulivi, che fu così pieno di pianti, di tristezze, di agonie alla sua base, ha, 
quassù, dei fulgori gloriosi, e la terra, intorno, par che rifranga questi fulgori. 
Quassù, levando gli occhi al cielo, il cielo sembra s’inchini dolcemente, sul monte 
dell’angoscia e del trionfo; e alle spalle, quasi, pare scomparsa la moschea, e, 
infine, il monte pare che si aderga, in un nimbo di luce. In terra, degli umili fiorellini 
violetti crescono, sull’arida cima. 
Non già le quattro mura chiuse e soffocanti di una cappella, sieno pur esse 
decorate magnificamente dalla pietà religiosa, non già l’edifizio di pietra, che 
opprime lo spirito, che respinge lo sguardo rivolto al cielo, ma il giardino, in piena 
aria, il giardino fiorente sulla costa del monte, sotto il gran cielo di Palestina, cielo 
di un azzurro così tenero che va nel bianco, il giardino rorido di rugiade notturne 
nelle delicate aurore orientali, continuamente lieto del canto degli uccelletti ecco 
Ghetsemane, che vi prende, che vi tiene, che non vi lascia, che, di lontano, vi 
mette nell’animo il suo uncino e che vi attira, ancora, sempre, con una forza 
intima e segreta. Infine, poi, che cosa è questo magico giardino? Esso è fatto da 
otto vecchissimi, antichissimi ulivi; l’ulivo non muore mai, esso rinasce dalla sua 
radice, e questi alberi hanno veduto Gesù sedersi sotto la loro ombra, pregare e 
ammaestrare i suoi discepoli. Otto ulivi: ma così vecchi e maestosi, che due di essi, 
specialmente, hanno la grandezza e la maestà delle querce. I loro tronchi sono 
enormi: il più grosso ha otto metri di circonferenza, sorgendo dalla terra, e il suo 
fogliame verde cinereo si stende ampio sull’orto di Ghetsemane. E non sembra più 
legno, l’antichissimo tronco: sembra pietra, sembra roccia, ne ha il colore, ne ha la 
durezza, ne ha i crepacci silicei: mentre, in su, meravigliosamente, è tutta una 
vegetazione fresca e vivida, e i cari vecchi ulivi dell’indimenticabile giardino 
dànno ancora un raccolto. Otto ulivi: ma, tra loro, la carità poetica dei frati 
francescani, con una intuizione geniale, ha disseminato le più ridenti, le più vivaci 
aiuole di fiori, e in quel clima caldo, in quel paese così mancante di acqua, il 
giardino di Ghetsemane sempre tutto fiorito, sempre di una freschezza ammirabile, 
pare un lembo di terra incantata fra la vastità di un arido deserto. E il contrasto fra 
tutti quei fiori dai colori delicati, dai profumi soavi, coi vecchi ulivi, il cui bigio colore 
pare quello della grande età, è affascinante: accanto ai tronchi che hanno visto 
migliaia di anni, crescono le picciole rose bianche dai petali così tenui, i geranei 
rosei screziati di rosso più vivo, le speronelle di un così grazioso color viola, e certi 
grandi gigli rosei, alti sul loro stelo lanoso e schiudentisi, come coppe di odori grati, 
all’aere che passa. Passarono, passarono i secoli sugli antichissimi ulivi, e questi 
giocondi e olezzanti fiori non vivono che un giorno, ma sempre la loro leggiadra 
giovinezza si rinnova intorno agli alberi carichi di anni, e sempre la loro fugace 
beltà, la loro smagliante gioventù circonda amorosamente l’austero gruppo degli 
ulivi argentei, che vissero e videro tanto travolgersi di tempi e di cose: ed è una 
carezza perenne di fiori che abbraccia gli augusti alberi, è un sorriso di primavera 
eterna che avvolge questa grande e venerabile vecchiaia. 

Ogni giorno, Gesù, abbandonata la città di Gerusalemme dove era mal 
visto e mal sofferto, lasciando il Tempio che gli faceva disgusto, poichè in esso la 
Legge era diventata la sorgente di tutte le ipocrisie e di tutte le cupidigie, Gesù, 
seguito dai suoi discepoli, esciva dalla città e veniva a questo giardino di 
Ghetsemane. Il profeta di Galilea amava la campagna con profondo affetto, 
amava ascendere sui monti, dove la parola è più libera e più sonora, amava 
istruire coloro che lo seguivano, innanzi ai puri spettacoli della natura. 
Ascendendo alla metà del Monte degli Ulivi, egli entrava in quest’orto di 
Ghetsemane, di cui il padrone era un suo amico e che lo lasciava liberamente 
trascorrere pel piccolo possedimento. Quassù, sotto questi ulivi, egli sedeva. Era  

l’ora pomeridiana, così dolce, in Oriente. Quante volte, a traverso il fogliame fine 
d’argento, egli deve aver levato gli occhi al cielo, cercandovi la visione di suo 
Padre, da cui ripeteva l’ardor sacro della predicazione! Quante volte il gaio canto 
degli uccellini, salutanti il sole che tramontava dietro Gerusalemme, deve aver 
messo nel suo cuore così grande, una tenerezza infinita, un infinito struggimento! 
Accanto a lui, era Simon Pietro, in cui egli aveva una fede così forte, che neppure 
l’atto di viltà del rinnegamento arrivò a far crollare, erano Giovanni e Giacomo, 
che egli si compiaceva di chiamare i figli del fulmine, tanto era ardente il loro 
apostolato, e vi erano i discepoli minori, e vi erano le pie donne: Maria di Cleofe, 
che lo seguì e lo amò, dal primo momento della sua predicazione; Maria di 
Magdala, la passionale donna di Galilea, a cui egli aveva tutto perdonato, e in 
cui egli aveva compito uno dei suoi più alti miracoli spirituali; Maria di Bethania, la 
sorella di Marta e di Lazzaro, su cui le parole di Cristo facevano l’effetto di un 
incantamento; e Susanna, moglie di Couza, e altre tre o quattro che, fedeli, 
pietose, tenerissime, non sapevano più staccarsi da lui. A costoro egli parlava, 
sotto questi vecchissimi ulivi. Allora, nell’idillio di una primavera rinascente, in un 
paese ancora benedetto dal Signore, che non aveva ancora subìto gli orribili 
cataclismi che ne hanno persino cangiato la natura del suolo, innanzi a un cielo 
limpido, fra gente che lo ascoltava con umiltà di cuore e con adorazione, piena 
l’anima di una divina speranza fidente in un avvenire largo e nobile, in cui 
l’umanità rigenerasse per sempre il suo spirito, Gesù diceva le parole dolci, le 
parole soavi, quelle parole di un amore fluente e così vasto che spietravano i cuori 
più duri, che infiammavano le immaginazioni più secche e più misere. O annosi 
ulivi, voi udiste la meravigliosa parola! Appoggiato a uno dei vostri vetusti tronchi, 
innanzi a quel monte Sìon dove rifulse la gloria di Davide e di Salomone, Gesù 
disse la nova legge di carità, di eguaglianza, la nova legge che liberava per 
sempre le anime, che le rendeva salde contro ogni sventura umana, nel nome di 
una suprema promessa: e tra i vostri rami, o ulivi, l’eco della parola sublime si 
diffuse, e da questo ignoto giardino di Palestina, di sotto questi poveri vecchi umili 
ulivi, questa parola la doveva udire il mondo. 

Eppure, questo nome di Ghetsemane si unisce al dolore più alto che abbia 
trafitto il cuore del Martire: e la fatale notte di spasimo, di accasciamento, 
passata, solitariamente, in quest’orto, è molto più dura e più tragica di tutta 
l’agonia sulla croce. Qui egli venne, nella sera terribile. Il suo animo era commosso 
e agitato: ma i suoi discepoli nulla intendevano e non sapevano consolarlo. 
Raccomandò loro di non dormire e confessò ad essi la sua infinita debolezza: lo 
spirito era pronto, ma la carne soffriva. Essi non compresero: si addormentarono 
ed egli restò solo, nella notte tenebrosa, solo in quell’orto, così ameno, dove 
aveva passato delle ore così belle, e che adesso si ammantava di lutto, solo, 
innanzi al cielo, solo innanzi al tremendo problema che si agitava nel suo spirito. 
Tentò di pregare, tentò di unirsi con l’orazione a suo Padre: non potette. Una 
tristezza mortale lo invase e un mortale sgomento. Andò a chiamare i suoi 
discepoli: essi dormivano. Amaramente rimproverò loro di non poter vegliare 
neppure un’ora, ma essi si riaddormentarono. Solo, di nuovo solo, senza difesa 
contro l’orribile sfiducia delle cose, degli uomini, dei tempi che lo aveva vinto! Ah,  

è in questa notte di lugubri paure, di solitudine sconsolata, di incertezza immensa, 
che Gesù vide, come in riassunto universale, tutta la infinita miseria dell’essere 
umano, tutte le radici degli inevitabili peccati che nessuna religione e nessuna 
morale arriveranno mai a distruggere, tutte le inveterate tentazioni della 
consuetudine ereditaria, contro cui non vi sono forze per combattere, tutte le 
decadenze del sangue e dello spirito, tutte le debolezze della fibra e del cuore, 
tutto il male nascosto nelle vene e nelle anime; pronto a combattere, sempre, e 
combattente con ogni arme, egli misurò l’uomo, Gesù, in questa notte tremenda, 
e gli apparve così irrimediabilmente povero di coraggio, indifeso contro tutte le 
offese del mondo e della carne, così cieco, così sordo, così vagante alla ventura 
fra mille pericoli, che gli parve impossibile di salvarlo, mai! Solo, perduto nelle 
ombre, col supplizio, con l’onta, con la morte imminente che lo aspettavano 
Gesù, come uomo, dubitò della sua opera, per la prima volta ne dubitò, e così 
crudelmente, che tutta la sua fibra umana si sconvolse, ed egli grondò sangue da 
tutti i pori. È in questo obliato orto di Ghetsemane, che egli chiese a sè stesso, nel 
dubbio più lacerante che abbia mai fatto spasimare un gran cuore, se tutta la sua 
predicazione non fosse stata un vano rumore portato via dal vento, se la semente 
della sua parola come nella parabola non fosse caduta sulla roccia dell’egoismo, 
o non fosse stata divorata dalla cupidigia degli uccelli di rapina: egli chiese a sè 
stesso, se tutta la sua vita terrena, dedicata a questa luminosa idea, di rifare lo 
spirito del mondo, non fosse stata consumata inutilmente: egli si chiese, se non era 
inutile, oramai, morire sulla croce! 
Angosciosa domanda, fatta da una natura vergine e ardente, sorpresa, a un 
tratto, nella medesima anima divina, dal gelo del dubbio; sconfitta a un tratto, 
dalla sfiducia più triste; avvilita dal pensiero di aver invano sofferto, di dover morire 
invano! E caduto nella umiliazione più profonda, le mani di Gesù si sono 
congiunte, ed egli ha pregato il suo Signore, perchè questo calice gli fosse 
risparmiato: e questo giardino ha udito, ha udito la parola più disperata che sia 
mai uscita da una bocca umana. Quante ore durò, dunque, questa notte di 
Ghetsemane? Ah, chiediamolo a tutti coloro che conobbero, nella vita, come il 
loro Dio, di queste notti indescrivibili, immersi in una desolazione sconfinata, 
vedendo intorno a sè crollato tutto; chiediamo a tutti coloro che spasimarono, in 
una di queste notti senza luce e senza soccorso, finite la loro gloria e la loro 
fortuna; chiediamola a tutte le anime grandi che ebbero la loro notte di 
Ghetsemane, in cui sentirono l’inanità dei loro sforzi, la meschinità di tutti i loro 
tentativi, la caducità di ogni loro opera. Chi ha misurato quelle ore, mai? Le 
poche, nitide parole dell’Evangelio vi imprimono un sacro spavento, giacchè tutta 
la lunghezza dei tormenti morali di Gesù, tutto il traboccante dolore del suo spirito, 
in quelle ore solinghe, risulta con una semplicità terribile. La tragedia fu avvolta 
dalle tenebre, fu senza spettatori, fu alta, fu incommensurabile; e quando il 
Figliuolo dell’Uomo uscì e porse la guancia a Giuda, in verità, egli aveva vinto, ma 
era già morto. 

O giardino di Ghetsemane, il sepolcro di Giuseppe di Arimatea non raccolse 
che il suo corpo; ma tu hai udita la sua parola e tu hai visto le sue lacrime, tu sei  
 più sacro, a noi, di ogni sacro posto: e niuno può accostarsi a questi secolari ulivi 
senza tremare. 
{da "Nel paese di Gesù" - Matilde Serao}