Nessun intoppo. Tutto andava perfettamente. Non avevo
dimenticato nulla, tutto era pronto, io era pronta, ognuno era pronto, i facchini
per i bagagli, il buon Issa per salire in serpa, sulla vettura che mi aspettava, pronta
anche essa, poco lontano, fuori il grande arco di pietra di Bal-el-Khalil: pronti, tutti.
E, a un tratto, io ebbi una scossa, uno di quegli avvertimenti bizzarri, interiori,
indistinti, imprecisi, ma profondi: avevo dimenticato qualche cosa. Mentalmente,
feci una ispezione nella mia stanza, in tutti i mobili, in tutti i cassetti: numerai i
grandi e piccoli bagagli: frugai nelle mie tasche, nella borsetta da viaggio: tutto
era in regola. Ma la impressione persisteva: si faceva più forte. Io avevo
dimenticato qualche cosa.
Cercai nella mia memoria, e avessi fatto tutto, vistato il passaporto, telegrafato a
Napoli, telegrafato a Costantinopoli, impostate le lettere, avvertito l’ufficio del
Lloyd a Jaffa, per il posto sul battello. Tutto, tutto era stato fatto con una rara
precisione. Ma più vivida, in me, sorse la voce che mi suggeriva: hai dimenticato,
hai dimenticato, ricordati, ricordati! Lentamente, tormentata, discesi per le scale
dell’albergo, fra i saluti usuali di padroni, di segretari, di servi, di portinai ancora
sulla soglia, prima di avviarmi verso la carrozza che doveva condurmi alla stazione,
prima di dare le spalle a Gerusalemme, mi fermai pensando. Che cosa, dunque,
avevo dimenticato? Avevo io salutato tutti? Tutti? E la verità mi balenò nell’anima,
abbagliante. Io avevo dimenticato di salutare Nostro Signore.
Ah che quando, ritornata, di nuovo, frettolosamente, convulsamente, sola,
alla chiesa del Santo Sepolcro, alla tomba di Gesù Cristo, pochissimi minuti prima
della partenza, spinta da un bisogno irresistibile di addio, io mi prostrai e stesi le
braccia, su quel marmo, io fui presa da una disperazione lacerante, straziante.
Mai più, mai più io sarei ritornata, nel breve corso dei miei giorni, a Gerusalemme;
mai più mi sarei accostata a Gesù, nella sua vita, nella sua passione, nella sua
morte, così, come allora; mai più avrei toccato, col mio viso ardente, con le mie
labbra ardenti, quella fredda pietra che ha coperto la sua salma; mai più avrei
bagnato delle mie lacrime il suo sepolcro. Mai più, mai più la vita mia, legata a
tanti doveri e a tanti affetti, mi avrebbe ricondotta laggiù, in piissimo
pellegrinaggio. Non si va in Gerusalemme, se non una sola volta. Mai più avrei
valicato, nel ritorno, le sue porte fatali e mai più il mio cuore si sarebbe franto, così.
Era finito. Finito. Provavo l’immenso, invincibile dolore della fine. Come sul
cadavere di mia madre, su cui mi ero gittata, sola, nella più terribile e deserta sera
della mia esistenza, io singhiozzavo, inconsolabilmente, sul sepolcro di Gesù. Non
vedevo, non sapevo più nulla: tranne che tutto era finito, che, da quel giorno, da
quell’ora, io mi separavo per sempre da Sionne. Dovevo andare: tutto era finito.
Tre volte, piangendo, tornai indietro, nella sacra stanzetta e ne baciai, come il
figlio bacia il cadavere di sua madre, sì, di sua madre, non solo la tomba, ma le
pareti, ma la soglia: tre volte mi prostrai, piangendo, dovunque Egli era passato,
dal Golgotha alla tomba. Chi mi guardava, sorpreso? Chi si commoveva, al mio
dolore, in quell’ora di separazione? Non so. Non vidi. Non vedevo nulla. Forse,
nessuno mi guardò e mi udì. Forse chi mi guardò o mi udì, conosceva questo
scoppio di angoscia, in quel minuto supremo di divisione. Forse, altri hanno pianto
con me. Non so. Non vidi. Non ricordo. Abbracciai le colonne e baciai i gradini di
ogni altare, come se mi separassi da qualche cosa umana, per sempre, Mi voltai,
dalla soglia, e salutai, piangendo, come si saluta il cadavere che sparisce, e
pensai che io, sì, sarei morta e la gran chiesa resterebbe sempre viva, che la
grande tomba, viva, vigilerebbe sull’anima e sui cuori dei cristiani, che io sarei
morta, senza mai più rivedere nè Gerusalemme, nè il sepolcro del Signore. Chi
seppe la via che percorsi, a piedi, chiusa nel dolore, lacrimando, a capo basso?
Chi si ricorda per dove passai, che cosa feci, quali furono i miei atti, uscendo dalle
porte di Sionne, facendomi trascinare alla stazione? Andavo, mi conducevano,
muta in un velo di dolore e di lacrime solitarie, da nessuno asciugate, che nessuno,
che niente avrebbe potuto asciugare! La vettura conduceva un dolore,
profondato nell’anima ed effuso nei soffocati singulti, nelle lacrime che
incessantemente scorrevano sul volto bruciante, che nulla poteva reprimere,
inaridire. Conduceva un dolore, ecco tutto.
Un dolore profondo, sgorgante dall’anima spasimante, vide il vagone della
piccola ferrovia che doveva strapparmi, velocemente, per sempre, da
Gerusalemme. Guardavo, guardavo, dal finestrino, con occhi fissi e desolati,
Sionne, alta sui suoi colli, come si guarda il viso di chi non si vedrà mai più: e bene
avevo pensato, pregando che niuno mi avesse accompagnato alla stazione, in
quella mattina.. Io non avrei potuto separarmi liberamente, nella libertà del mio
dolore, dalla città dell’anima. Attorno a me, degli inglesi, vedendomi, dallo
sportello, guardare così intensamente e piangere, dissero, fra loro, che io dovevo
essere malata o pazza: mi rammentai, più tardi, il suono di quelle parole, non le
compresi, allora, subito. Guardavo. Impregnavo la mia vista e il mio cuore
dell’ultima visione di Gerusalemme: cercavo di portarne meco ogni linea, ogni
colore, ogni particolare, per poterla evocare, sempre, nella lontananza, nell’esilio.
Guardavo. Nulla sapevo di nulla. Il grande fracasso della stazione mi giungeva
indistinto. le facce, intorno, mi parevano di fantasmi: mentre il sole scintillava e
l’aria era brillante e l’ambiente era incantevole. Tutto io volevo trasportare, nei
miei sensi, nella mia immaginazione, nell’anima mia, di quegli aspetti e di
quell’ora. Il fischio stridente attraversò l’aria e il treno si mosse. Tutto era finito:
Gerusalemme spariva, innanzi ai miei occhi avidi, desolati, che sempre cercavano
vederla, mentre il treno affrettava i suoi giri di ruota. Tutto era finito. Potevo vivere,
patire, gioire morire, niente di tutto quello, io avrei riveduto e provato. Così, nello
spasimo lacerante, quando il cuore si rompe in due, separandosi, mentre la torre
di Davide si dileguava nella distanza, io feci un giuramento e feci un voto. Giurai,
che, per Gesù, per la sua fede e per il suo paese, benedetto e consacrato dalla
sua vita, o dalla sua morte, avrei scritto un libro, non il più artistico dei miei libri, ma
il più umano: non il più bello, ma il più sincero: giurai che lo avrei scritto con umiltà
e con speranza, da cristiana, per umili e speranzosi cristiani.
E ho tenuto il giuramento e sciolgo, oggi, il voto. Io depongo questo libro ai
piedi della Croce, ad Essa tendendo le braccia, per me, per i miei figli,
mormorando per me, per essi, le parole degli antichi cristiani: Ave, spes unica.
{Nel paese di Gesù - Matilde Serao}