martedì 29 ottobre 2013

Il commiato

Nessun intoppo. Tutto andava perfettamente. Non avevo 
dimenticato nulla, tutto era pronto, io era pronta, ognuno era pronto, i facchini 
per i bagagli, il buon Issa per salire in serpa, sulla vettura che mi aspettava, pronta 
anche essa, poco lontano, fuori il grande arco di pietra di Bal-el-Khalil: pronti, tutti. 
E, a un tratto, io ebbi una scossa, uno di quegli avvertimenti bizzarri, interiori, 
indistinti, imprecisi, ma profondi: avevo dimenticato qualche cosa. Mentalmente, 
feci una ispezione nella mia stanza, in tutti i mobili, in tutti i cassetti: numerai i 
grandi e piccoli bagagli: frugai nelle mie tasche, nella borsetta da viaggio: tutto 
era in regola. Ma la impressione persisteva: si faceva più forte. Io avevo 
dimenticato qualche cosa. 
Cercai nella mia memoria, e avessi fatto tutto, vistato il passaporto, telegrafato a 
Napoli, telegrafato a Costantinopoli, impostate le lettere, avvertito l’ufficio del 
Lloyd a Jaffa, per il posto sul battello. Tutto, tutto era stato fatto con una rara 
precisione. Ma più vivida, in me, sorse la voce che mi suggeriva: hai dimenticato, 
hai dimenticato, ricordati, ricordati! Lentamente, tormentata, discesi per le scale 
dell’albergo, fra i saluti usuali di padroni, di segretari, di servi, di portinai ancora 
sulla soglia, prima di avviarmi verso la carrozza che doveva condurmi alla stazione, 
prima di dare le spalle a Gerusalemme, mi fermai pensando. Che cosa, dunque, 
avevo dimenticato? Avevo io salutato tutti? Tutti? E la verità mi balenò nell’anima, 
abbagliante. Io avevo dimenticato di salutare Nostro Signore. 

Ah che quando, ritornata, di nuovo, frettolosamente, convulsamente, sola, 
alla chiesa del Santo Sepolcro, alla tomba di Gesù Cristo, pochissimi minuti prima 
della partenza, spinta da un bisogno irresistibile di addio, io mi prostrai e stesi le 
braccia, su quel marmo, io fui presa da una disperazione lacerante, straziante.  

Mai più, mai più io sarei ritornata, nel breve corso dei miei giorni, a Gerusalemme; 
mai più mi sarei accostata a Gesù, nella sua vita, nella sua passione, nella sua 
morte, così, come allora; mai più avrei toccato, col mio viso ardente, con le mie 
labbra ardenti, quella fredda pietra che ha coperto la sua salma; mai più avrei 
bagnato delle mie lacrime il suo sepolcro. Mai più, mai più la vita mia, legata a 
tanti doveri e a tanti affetti, mi avrebbe ricondotta laggiù, in piissimo 
pellegrinaggio. Non si va in Gerusalemme, se non una sola volta. Mai più avrei 
valicato, nel ritorno, le sue porte fatali e mai più il mio cuore si sarebbe franto, così. 
Era finito. Finito. Provavo l’immenso, invincibile dolore della fine. Come sul 
cadavere di mia madre, su cui mi ero gittata, sola, nella più terribile e deserta sera 
della mia esistenza, io singhiozzavo, inconsolabilmente, sul sepolcro di Gesù. Non 
vedevo, non sapevo più nulla: tranne che tutto era finito, che, da quel giorno, da 
quell’ora, io mi separavo per sempre da Sionne. Dovevo andare: tutto era finito. 
Tre volte, piangendo, tornai indietro, nella sacra stanzetta e ne baciai, come il 
figlio bacia il cadavere di sua madre, sì, di sua madre, non solo la tomba, ma le 
pareti, ma la soglia: tre volte mi prostrai, piangendo, dovunque Egli era passato, 
dal Golgotha alla tomba. Chi mi guardava, sorpreso? Chi si commoveva, al mio 
dolore, in quell’ora di separazione? Non so. Non vidi. Non vedevo nulla. Forse, 
nessuno mi guardò e mi udì. Forse chi mi guardò o mi udì, conosceva questo 
scoppio di angoscia, in quel minuto supremo di divisione. Forse, altri hanno pianto 
con me. Non so. Non vidi. Non ricordo. Abbracciai le colonne e baciai i gradini di 
ogni altare, come se mi separassi da qualche cosa umana, per sempre, Mi voltai, 
dalla soglia, e salutai, piangendo, come si saluta il cadavere che sparisce, e 
pensai che io, sì, sarei morta e la gran chiesa resterebbe sempre viva, che la 
grande tomba, viva, vigilerebbe sull’anima e sui cuori dei cristiani, che io sarei 
morta, senza mai più rivedere nè Gerusalemme, nè il sepolcro del Signore. Chi 
seppe la via che percorsi, a piedi, chiusa nel dolore, lacrimando, a capo basso? 
Chi si ricorda per dove passai, che cosa feci, quali furono i miei atti, uscendo dalle 
porte di Sionne, facendomi trascinare alla stazione? Andavo, mi conducevano, 
muta in un velo di dolore e di lacrime solitarie, da nessuno asciugate, che nessuno, 
che niente avrebbe potuto asciugare! La vettura conduceva un dolore, 
profondato nell’anima ed effuso nei soffocati singulti, nelle lacrime che 
incessantemente scorrevano sul volto bruciante, che nulla poteva reprimere, 
inaridire. Conduceva un dolore, ecco tutto. 


Un dolore profondo, sgorgante dall’anima spasimante, vide il vagone della 
piccola ferrovia che doveva strapparmi, velocemente, per sempre, da 
Gerusalemme. Guardavo, guardavo, dal finestrino, con occhi fissi e desolati, 
Sionne, alta sui suoi colli, come si guarda il viso di chi non si vedrà mai più: e bene 
avevo pensato, pregando che niuno mi avesse accompagnato alla stazione, in 
quella mattina.. Io non avrei potuto separarmi liberamente, nella libertà del mio 
dolore, dalla città dell’anima. Attorno a me, degli inglesi, vedendomi, dallo 
sportello, guardare così intensamente e piangere, dissero, fra loro, che io dovevo 
essere malata o pazza: mi rammentai, più tardi, il suono di quelle parole, non le 
compresi, allora, subito. Guardavo. Impregnavo la mia vista e il mio cuore 
 dell’ultima visione di Gerusalemme: cercavo di portarne meco ogni linea, ogni 
colore, ogni particolare, per poterla evocare, sempre, nella lontananza, nell’esilio. 
Guardavo. Nulla sapevo di nulla. Il grande fracasso della stazione mi giungeva 
indistinto. le facce, intorno, mi parevano di fantasmi: mentre il sole scintillava e 
l’aria era brillante e l’ambiente era incantevole. Tutto io volevo trasportare, nei 
miei sensi, nella mia immaginazione, nell’anima mia, di quegli aspetti e di 
quell’ora. Il fischio stridente attraversò l’aria e il treno si mosse. Tutto era finito: 
Gerusalemme spariva, innanzi ai miei occhi avidi, desolati, che sempre cercavano 
vederla, mentre il treno affrettava i suoi giri di ruota. Tutto era finito. Potevo vivere, 
patire, gioire morire, niente di tutto quello, io avrei riveduto e provato. Così, nello 
spasimo lacerante, quando il cuore si rompe in due, separandosi, mentre la torre 
di Davide si dileguava nella distanza, io feci un giuramento e feci un voto. Giurai, 
che, per Gesù, per la sua fede e per il suo paese, benedetto e consacrato dalla 
sua vita, o dalla sua morte, avrei scritto un libro, non il più artistico dei miei libri, ma 
il più umano: non il più bello, ma il più sincero: giurai che lo avrei scritto con umiltà 
e con speranza, da cristiana, per umili e speranzosi cristiani. 
E ho tenuto il giuramento e sciolgo, oggi, il voto. Io depongo questo libro ai 
piedi della Croce, ad Essa tendendo le braccia, per me, per i miei figli, 
mormorando per me, per essi, le parole degli antichi cristiani: Ave, spes unica. 
{Nel paese di Gesù - Matilde Serao}