martedì 29 luglio 2014

La meditazione


La vita spirituale è innanzitutto una vita.
Non è soltanto qualche cosa che va conosciuta e studiata, bisogna viverla. Come ogni vita, si ammala e muore quando è sradicata dal suo elemento. La grazia è innestata nella nostra natura e tutto l’uomo viene santificato dalla presenza e dall’azione dello Spirito Santo.
La vita spirituale non è quindi una vita completamente avulsa dall’elemento umano e trasferita nel regno degli angeli. Viviamo da persone spirituali quando viviamo da uomini che cercano Dio. Se dobbiamo diventare spirituali, bisogna che rimaniamo uomini, e se ogni punto della teologia non ne fornisse la prova evidente, basterebbe da solo il mistero dell’Incarnazione a provarlo. Perché Cristo si fece uomo, se non per salvare gli uomini unendoli misticamente a Dio attraverso la sua sacra umanità? Gesù ha vissuto la vita comune degli uomini del suo tempo per santificare la vita ordinaria degli uomini di tutti i tempi. Se vogliamo quindi essere spirituali viviamo innanzi tutto la nostra vita. Non temiamo le responsabilità e le inevitabili distrazioni inerenti al lavoro, che è stato determinato per noi dalla volontà di Dio. Immergiamoci nella realtà e ci troveremo immersi nella vivificante volontà di Dio e nella sua sapienza che ci circonda da ogni parte.
Per prima cosa assicuriamoci bene di conoscere davvero ciò che stiamo facendo. Soltanto la fede ci può fornire la luce necessaria per accorgerci che la volontà di Dio si trova nella vita comune di ogni giorno. Senza questa luce non possiamo prendere le decisioni convenienti. Senza tale certezza non possiamo avere fiducia soprannaturale e pace. Inciampiamo e cadiamo di continuo anche quando siamo maggiormente illuminati, ma se ci troviamo nella vera tenebra spirituale non ci accorgiamo neppure di essere caduti.
Per mantenerci spiritualmente vivi dobbiamo di continuo rinnovare la nostra fede. Siamo come piloti di una nave immersa nella nebbia, che scrutano la foschia, tendono l’orecchio ai segnali delle altre navi, e soltanto se stiamo bene all’erta potremo raggiungere il nostro porto. La vita spirituale è quindi anzitutto questione di vigilanza. Non dobbiamo perdere la percezione delle ispirazioni: dobbiamo essere sempre in grado di rispondere al minimo avvertimento che ci parla, come per un istinto segreto, nelle profondità dell’anima che è spiritualmente viva.
La meditazione è uno dei mezzi mediante i quali chi fa vita spirituale si mantiene all’erta. E non è affatto un paradosso che proprio nella meditazione la maggior parte degli aspiranti alla perfezione religiosa diventano insensibili e si addormentano. La preghiera meditativa è una severa disciplina e non la si impara se non facendosi forza. Richiede un infinito coraggio e una instancabile perseveranza, e chi non se la sente di lavorarvi con pazienza, finirà in un compromesso. Ma qui, come in ogni altro campo, il compromesso è soltanto una maniera diversa di indicare un fallimento.
Meditare vuol dire pensare. Eppure una buona meditazione è molto più che ragionare o pensare. Molto più che degli «affetti», molto più che una serie di atti» per cui si passa.
Nella preghiera meditativa si pensa e si parla non soltanto con la mente e con le labbra, ma in certo senso con tutto il proprio essere. La preghiera non è quindi esattamente una serie di parole, o un seguito di desideri che nascono nel cuore — è il volgere a Dio nel silenzio, nell’attenzione e nell’adorazione, il corpo, la mente e lo spirito. Ogni buona meditazione è una conversione di tutto il nostro essere a Dio.
Non si può quindi entrare nella meditazione, intesa in questo senso, senza una specie di slancio interiore. Per slancio non intendo qualche cosa che turbi, ma un interrompere la solita routine, un liberare il cuore dalle cure e dalle preoccupazioni della vita di ogni giorno. La ragione per la quale tanta poca gente si applica davvero all’orazione mentale è precisamente perché ci vuole questo slancio interiore, e di solito non si è capaci di compiere lo sforzo che esso richiede. Può darsi che si manchi di generosità, o anche di guida e di esperienza, e si va avanti per una strada sbagliata. Ci si turba, ci si mette in agitazione con sforzi violenti per raggiungere il raccoglimento e si va a finire in una specie di incapacità. Dopo di che, ci si accontenta di una serie di routines che aiutano a passare il tempo, o ci si rilassa in uno stato di semicoma che, si spera, può essere giustificato col nome di contemplazione.
Ogni direttore spirituale sa quanto sia difficile e sottile poter determinare esattamente il punto di confine tra l’ozio interiore e i primi, impercettibili inizi della contemplazione passiva. Ma in pratica, al presente, si è detto abbastanza sulla contemplazione passiva per dare ai pigri l’opportunità di rivendicare il privilegio di «pregare non facendo nulla».
Non esiste una cosa come una preghiera nella quale «non si faccia nulla», o «non accada niente», anche se vi può essere benissimo una preghiera in cui non si sente, non si percepisce o non si pensa nulla.
Ogni vera preghiera, non importa quanto semplice, richiede la conversione di tutto il nostro essere verso Dio, e finché ciò non si è attuato — o attivamente per mezzo dei nostri sforzi, o passivamente per azione dello Spirito Santo — non entriamo nella «contemplazione» e non possiamo impunemente diminuire nostri sforzi per stabilire il contatto con Dio. Se tentiamo di contemplare Dio senza aver completamente rivolto verso di Lui il nostro volto interiore, finiremo inevitabilmente col contemplare noi stessi e ci immergeremo probabilmente nell’abisso di quella fredda tenebra che è la nostra natura sensibile. E non si tratta di una tenebra in cui si possa impunemente rimanere passivi.
D’altro canto, se ci basiamo troppo sulla fantasia e sulle nostre sensazioni, non ci volgeremo verso Dio, ma ci immergeremo in una quantità di immagini e ci fabbricheremo con le nostre mani una esperienza religiosa fatta su misura, cosa anch’essa pericolosa. Si riuscirà a «volgere» tutto il proprio essere verso Dio solo mediante una fede profonda, semplice e sincera, vivificata da una speranza che crede possibile il contatto con Dio, e da un amore che desidera sopra ogni altra cosa il compimento della sua volontà.
Talvolta accade che la meditazione non sia altro che una sterile lotta per volgersi verso Dio, per cercare il suo Volto nella fede. Un certo numero di cose che sfuggono al nostro controllo possono rendere moralmente impossibile una vera meditazione. In tal caso fede e buona volontà sono sufficienti. Se si è fatto uno sforzo sincero e onesto per volgersi verso Dio e non si riesce in nessun modo a tenere raccolte le proprie facoltà, allora il nostro tentativo può valere da meditazione. Questo significa che Dio, nella sua misericordia, accetta i nostri vani sforzi invece di una vera meditazione. Talvolta accade che questa incapacità spirituale sia segno di effettivo progresso nella vita interiore — perché ci fa dipendere più totalmente e con maggior pace dalla Divina Misericordia.
Se, per grazia di Dio, riusciamo a volgerci interamente verso di Lui e a mettere da parte ogni altra cosa per parlare con Lui e onorarlo, questo non significa che siamo sempre in grado di immaginarlo e di sentire la sua presenza. Per una completa conversione di tutto il nostro essere verso Dio non si richiedono né immaginazione, né sentimento: e neppure sono particolarmente desiderabili una «idea» di Dio o una intensa concentrazione. Difficile com’è a tradurla in linguaggio umano, esiste una presenza di Dio, effettivamente reale, e riconoscibile (ma quasi del tutto indefinibile) nella quale ci troviamo dinanzi a Lui nella preghiera, nell’atto di conoscere Colui dal quale siamo conosciuti, di percepire Colui che ha la percezione di noi, di amare Colui dal quale sappiamo di essere amati. Presenti a noi stessi nella pienezza della nostra personalità, lo siamo anche a Lui che è infinito nel suo Essere, nella sua Alterità, nella sua propria Identità. Non è una visione faccia a faccia, ma una certa presenza di persona a persona che
che ci permette, con la riverente attenzione di tutto ciò che siamo, di conoscere Colui nel quale tutte le cose hanno il loro essere. L’«occhio» che si apre alla sua presenza sta proprio nel centro della nostra umiltà, nel cuore della nostra libertà, nelle profondità della nostra natura spirituale. E meditare vuol dire aprire quest’occhio.

 {Thomas Merton - Pensieri nella solitudine}