venerdì 8 aprile 2011

Il miracolo di Dio.

Ricordo quando in preda all'angoscia ed al terrore digitai su Google "varicella quinta settimana di gravidanza". La ricerca non diede gli effetti sperati e non trovai nulla che potesse aiutarmi ad allegerire il peso che mi opprimeva il cuore in quel momento.
Scrivo questo post con la speranza di aiutare qualunque altra donna nella mia stessa situazione, a trovare un pò di sollievo. Quello che io, all'epoca, non trovai.
Mi auguro che il motore di ricerca la porti qui, in questo mio blog, e che per lei possa essere la visione della terraferma, dopo giorni e giorni di navigazione. E che il mio racconto possa chiarirle un po' le idee.
Era il 2008. Io e mio marito decidemmo di avere il secondo figlio. Confesso che non si fece attendere per niente: arrivò subito, come se avesse fretta di nascere.
Era andato tutto secondo i nostri piani: sarebbe nato ad aprile, così avrei evitato di affrontare i mesi caldi col pancione, come mi era successo per il primogenito.
Il test di gravidanza stavolta fu solo una conferma, sapevo già di aspettare un bimbo, me lo dicevano i crampetti che mi prendevano all'altezza dell'utero e la visione del mio seno che sembrava una carta geografica fisica, dove le vene erano decine di fiumi in evidenza.
Io e mio marito decidemmo di festeggiare il lieto evento quel fine settimana con i nostri parenti. Lui comprò anche una bottiglia di spumante Ferrari per il brindisi al nuovo erede, ma il giorno dopo vidi due bollicine piene d'acqua sul mio braccio destro. Non ci diedi molto peso, ma sotto insistenza di mio marito, cercai il mio dottore. Non lo trovai: era il 14 di agosto. Andai alla parafarmacia dell'Ipercoop, visto che mi trovavo lì e feci vedere le bolle alla dottoressa che era dietro il bancone. Lei non fece una bella faccia, specialmente quando le dissi di essere un po' preoccupata perché ero incinta. Mi disse di andare al Pronto Soccorso, perché "quando sono piene d'acqua non sono mai un buon segno". Ma io non vi andai. Vi arrivai solo il 16 agosto, alle 6 del mattino. Non riuscivo più a sopportare il dolore che avvertivo soprattutto in faccia, un dolore simile a quello di un'ustione. Nel resto del corpo avevo prurito, ma non avevo bolle vere e proprie. Avevo come uno sfogo sottopelle. La diagnosi fu veloce e chiara: varicella. Quando dissi alla dottoressa di turno che ero incinta, lei subito mi apostrofò con queste parole, che il mio cervello mai dimenticherà: "Se sei veramente incinta devi abortire. Non vorrai mica fare un mostro? Una malattia così nelle prime settimane non dà scampo".
In quel preciso istante il mondo smise di girare e nella mia testa si fece silenzio. La mia vista ebbe un effetto simile allo zoom di una macchina fotografica, avanti e poi indietro.
Non risposi, mi fece sdraiare sul lettino, e cominciai a piangere.
Mi tennero sei lunghissime ore al Pronto Soccorso ed ogni dottore che montava di turno mi dava conferma della mia triste condizione e della mia feroce condanna.
Una addirittura mi consolò dicendo che l'aborto era roba da poco, che bastava prendere l'appuntamento, (anche lì in quel momento avrei potuto farlo), che la pratica sarebbe durata pochi minuti, che era abbastanza indolore e che dopo qualche ora sarei stata dimessa. Tutto questo lo disse con una superficialità disarmante.
Io le risposi che volevo andare a casa mia e che dovevo riflettere.
Quando arrivai a casa guardai la bottiglia di Ferrari in bella vista nella vetrina della sala. Avrei dovuto festeggiare ed essere felice e invece dovetti pure sentire i consigli dei miei parenti, tutti d'accordo nell'uccidere quell'esserino che si trovava nel mio grembo. "Non puoi rischiare, non sai come ti nasce, vi rovinerete la vita, devi pensare anche all'altro figlio che hai già". Anche mia madre, che mi ha insegnato il valore della vita, che aveva sempre condannato l'aborto e chi lo praticava, anche mia madre, cattolica e praticante...non credevo alle mie orecchie. E poi la frase più stupida: "Ne avrete un altro".
Io, piangendo rispondevo "Sì, ma non sarà lui, non sarà questo, non sarà Samuele". Così avevamo deciso tempo prima, si sarebbe chiamato Samuele. Ero lì, ed ero da sola con la mia decisione: tenerlo. Andai per un mese al reparto infettivi, dove una dottoressa ci aveva regalato un barlume di speranza. Aveva detto che la malattia poteva essere arrivata al bambino ma che se fosse successo con l'amniocentesi si sarebbe certamente visto. E che non doveva per forza essere una malformazione grave.
Era già qualcosa alla quale attaccarsi con le unghie e con i denti. E così facemmo.
Ricordo quei giorni, avanti e indietro per l'ospedale, nel pieno della malattia, con la faccia sfigurata e la febbre alta. La dottoressa diceva che era più pericolosa per me che per il bambino. Ma quello era l'ultimo dei miei pensieri. A settembre andammo a Parma, a fare una visita con un ginecologo molto bravo, un luminare del ramo. Quando gli spiegai come erano andate le cose, mi bastò guardare la sua faccia per capire che non ero messa bene. Mi disse che c'era la possibilità che il feto (disse che non era un bimbo) fosse ancora nella mia pancia ma che poteva essere morto, poiché se la malattia avesse "passato" la placenta la creatura non avrebbe resistito e sarebbe certamente morta. Fu orrendo quello che provai in quell'istante. Due minuti dopo ero sdraiata sul lettino a fare l'ecografia, e pregando silenziosamente, mi accingevo a vedere il mio bambino per la prima volta e forse lo avrei visto privo di vita.
Ma il destino così non volle. Lo vidi lì nello schermo e ascoltai chiaramente il battito del suo cuore. Sollevata, mi feci rincuorare ancora di più da quel dottore che rimarrà nella mia mente come la persona che mi diede la vita per la seconda volta. Egli mi spiegò che non poteva avere problemi al cervello o malformazioni al cuore perché quell'esserino non aveva ancora, né un cuore, né un cervello. L'unica cosa che poteva succedere era quella che non era successa: la morte. La seconda volta che lo vidi in un'ecografia, con il ginecologo nuovo al quale mi affidai, si muoveva come un pazzo. Muoveva le gambette come se fosse stato in bicicletta. Il dottore mi spiegò che i bimbi che stanno male si muovono poco. E invece lui, era di nuovo lì e si agitava sullo schermo, quasi volesse farmi capire che andava tutto bene. A dire il vero, Samuele si mosse sempre tantissimo, giorno e notte, si girava a destra e a sinistra continuamente e dava grandi calci. 
Al 5° mese arrivai a fare un ingrandimento della foto dell'ecografia, quella in cui si potevano indovinare il faccino, le braccia, le gambe e i piedini. La attaccai col nastro adesivo all'armadio della camera da letto, così da poterla guardare mentre riposavo. Per poterlo vedere sempre che non aveva niente che non andava; poiché, nonostante le rassicurazioni del ginecologo di Parma e del mio in seguito, quel tarlo nella mente rimaneva...le cose dette in quel Pronto Soccorso e al reparto infettivi non mi davano pace, la mia mente non aveva tregua, anche se cercavo di continuo di calmarmi e di ragionare. E allora mi auto-convincevo che tutto procedeva nel migliore dei modi. 
Ma poi arrivava la notte...era il momento peggiore la notte. Tutti i miei propositi di pensare in positivo si affievolivano fino a sparire. Migliaia di volte sognai di partorire un mostro e centinaia di volte sognai il bimbo nascere con la faccia sfigurata dalla varicella, così come ero stata sfigurata io, nei giorni della malattia.
Più si avvicinava la data prevista del parto e più mi prendeva il terrore. Sarei stata abbastanza forte da resistere ad un colpo tale?
E se il bimbo fosse nato malformato, mentalmente handicappato, cieco, sordo, muto o chissà cosa, come avrei potuto guardare negli occhi mio marito, che fin dal primo momento mi aveva consigliato di abortire e che poi, per amor mio, mi aveva assecondato in questo cammino?
E il giorno venne. Venerdi 17 aprile, alle 9 del mattino arrivai all'ospedale. La data non preannunciava niente di buono, ma io invece pensai che mi avrebbe portato fortuna.
Il travaglio andò via liscio, dopo 5 ore ero nella fase espulsiva. Volevo partorirlo questo mio figlio ma avevo paura di vederlo. Spingevo forte ma chiudevo le gambe. Poi, d'un tratto sentii piangere. Non lo guardai. Chiesi "com'è?". Una voce mi rispose "è un bel maschietto e pesa 3 chili e 240 grammi".
Me lo posarono sul petto. Piangeva come un ossesso e non c'era modo di calmarlo. Era bellino. Aveva solo la pelle un po' rossa, ma mi spiegarono che era normale.
Ero sollevata ma solo l'esito regolare di tutti gli esami successivi alla nascita, mi fecero capire che l'incubo era finalmente finito.
Spero davvero che la mia storia arrivi a qualche mamma o a qualche papà colti dal panico. A voi va il mio pensiero, perché so cosa si prova e come ci si possa sentire in queste condizioni.
Non tutti quelli che parlano sanno cosa stanno dicendo, anche se hanno un camice addosso. Andate davvero in fondo alle cose, non prendete decisioni affrettate, non scegliete la via più breve e più facile, non siate prede della superficialità.
La vita di ogni singolo bambino è troppo importante, ogni individuo è unico ed irripetibile; un miracolo di Dio. Quella combinazione di geni non riuscirà a ripetersi mai più in egual modo.
Non posso fare a meno di pensare ogni giorno quando lo guardo, quanto io sia felice di essere stata così testarda e caparbia in quei momenti. Se così non fossi stata, la meraviglia che si chiama Samuele, non sarebbe mai nata. E invece ora è qui, sempre con me, con il suo caratterino fermo e deciso, con i suoi interminabili capricci, la sua dolcezza, i suoi bacini da lumachina e la sua grande voglia di vivere.



Samuele, significati del nome: il Signore ha ascoltato, il suo nome è Dio, chiesto da Dio, voluto da Dio.