Il temperamento non predestina uno alla santità ed un altro alla dannazione. Qualsiasi temperamento può servire di materia grezza per la salvezza o per la rovina. Dobbiamo imparare a vederlo come un dono di Dio, un talento da trafficare sino alla sua venuta. Non importa quanto sia povero e difficile quello di cui siamo dotati: se ne faremo buon uso, se lo metteremo a servizio dei nostri buoni desideri, potremo fare meglio di un altro che si limita a subirlo invece di servirsene.
San Tommaso dice (I-II, q. 34, a. 4) che si è buoni quando la volontà si diletta in ciò che è buono, cattivi quando ci si diletta in ciò che è cattivo. È virtuoso chi trova la felicità in una vita virtuosa, peccatore chi trae piacere da una vita peccaminosa. Dunque le cose che amiamo ci dicono quello che siamo.
Un uomo lo si conosce quindi dal fine a cui tende, ma anche dal suo punto di partenza, e se lo si vuol conoscere come è a un dato momento, bisogna scoprire quanto è lontano dall’inizio e prossimo al fine. Ne deriva dunque che chi pecca suo malgrado, ma non ama il suo peccato, non è un peccatore nel senso pieno della parola. Chi è buono viene da Dio e a Lui ritorna. Inizia il cammino con il dono dell’esistenza e con le capacità che Dio gli ha dato. Raggiunge l’età della ragione e incomincia a fare le sue scelte, in gran parte già influenzate da ciò che gli è capitato nei primi anni della sua esistenza e dal temperamento con cui è nato. Seguiterà a essere influenzato dal comportamento di chi lo circonda, dagli avvenimenti del mondo nel quale vive, dalla fisionomia della società; ma ciò nonostante resta sostanzialmente libero.
La libertà umana non si esercita però in un vuoto morale. E non è neppure necessario produrre un tal genere di vuoto per garantire la libertà del nostro agire. Coercizione dall’esterno, violente inclinazioni di temperamento e passioni che si agitano dentro di noi non riescono per nulla a infirmare l’essenza di questa nostra libertà: ne definiscono semplicemente il campo di azione ponendovi dei limiti: le conferiscono un carattere particolare.
Chi ha un temperamento iroso sarà più portato all’ira di un altro, ma fino a che resta sano di mente è anche libero di non adirarsi. La sua inclinazione all’ira costituisce semplicemente una forza nel suo carattere, forza che può essere indirizzata al bene o al male, secondo i suoi desideri. Se desidera il male, il suo temperamento ne diverrà un’arma volta contro gli altri e perfino contro se stesso. Se desidera il bene, potrà invece diventare lo strumento perfettamente controllato per combattere il male che ha in sé e aiutare gli altri a superare gli ostacoli che incontrano nel mondo. Resta libero di desiderare il bene o il male.
Sarebbe assurdo supporre che siccome l’emotività interferisce talvolta con la ragione, non trovi perciò posto nella vita spirituale. Il Cristianesimo non è lo stoicismo. La Croce non ci fa santi distruggendo il nostro umano sentire. Distacco non è insensibilità. Troppi asceti non riescono a diventare grandi santi proprio perché le loro regole e pratiche ascetiche hanno soffocato la loro umanità invece di fornirle la libertà necessaria per svilupparsi doviziosamente, in tutte le sue possibilità, sotto l’influenza della grazia. Un santo è un uomo perfetto. È un tempio dello Spirito Santo. Riproduce, nella sua maniera individuale, qualche cosa dell’equilibrio, della perfezione e dell’ordine che scorgiamo nel carattere umano di Gesù. L’anima di Gesù, ipostaticamente unita al Verbo di Dio, fruiva in pari tempo, e senza nessuna antitesi, della Visione beatifica di Dio e delle più comuni, semplici ed intime emozioni umane — amore, pietà e dolore, felicità, piacere o sofferenza: indignazione e meraviglia stanchezza, ansietà e timore consolazione e pace.
Se non abbiamo sentimenti umani non possiamo amare Dio nella maniera nella quale vuole che Lo amiamo — ossia da uomini. Se non rispondiamo all’affetto umano non possiamo essere amati da Dio nella maniera nella quale ha voluto amarci — con il Cuore dell’Uomo Gesù che è Dio, il Figlio di Dio, il Cristo.
La vita ascetica deve quindi essere intrapresa e condotta con estremo rispetto per il temperamento, il carattere, l’emotività e tutto ciò che ci rende umani. Anche questi sono elementi fondamentali della personalità e quindi della santità — perché un santo è un essere che l’amore di Dio ha fatto diventare pienamente una «persona» a somiglianza del suo Creatore.
Il controllo della emotività compiuto dal rinnegamento di sé tende a maturare e perfezionare la nostra sensibilità umana. La disciplina ascetica non risparmia la sensibilità: se lo facesse, verrebbe meno al suo compito. Se veramente ci rinneghiamo, questo nostro rinnegarci ci priverà talvolta di case delle quali abbiamo davvero bisogno, e ne sentiremo allora la necessità.
Dobbiamo soffrire. Ma l’assalto che la mortificazione dà ai sensi, alla sensibilità, all’immaginazione, al proprio giudizio e volere ha per scopo di purificare ed. arricchire tutte queste facoltà. I nostri cinque sensi vengono accecati dal piacere disordinato. La penitenza li rende più acuti, restituisce loro la naturale vitalità, anzi la accresce. La penitenza rischiara l’occhio della coscienza e della ragione: ci aiuta a pensare con chiarezza, a giudicare con criterio. Fortifica gli atti della volontà, eleva anche il tono della emotività: solo con la mancanza di rinnegamento e di autodisciplina si spiega la mediocrità di tanta arte devozionale, di tanti scritti pii, di tante preghiere sentimentali, di tante vite religiose.
Taluni si distolgono da tutta questa emotività a buon mercato con una specie di disperazione eroica e cercano Dio in un deserto in cui le emozioni non trovano nulla che possano sostenerle. Ma anche questo può essere un errore. Perché se la nostra emotività muore davvero nel deserto, con essa muore pure la nostra umanità. Dobbiamo ritornare dal deserto come Gesù o san Giovanni, con le nostre capacità di sentire accresciute e approfondite, fortificate contro i richiami della falsità, agguerrite contro la tentazione, fatte grandi, nobili e pure.